Fly Me to the Moon rappresenta una buona scelta per il ritorno al teatro, per riavvicinare gli spettatori alla magia della recitazione dal vivo, per condividere assieme agli attori emozioni che rischiavamo di dimenticarci. L’occasione è data dall’Inaugurazione della 25ma Rassegna di Drammaturgia Contemporanea, appuntamento con testi a volte complessi, con strutture narrative che spesso ricercano nuove forme di espressione. Quest’anno solo tre titoli – Covim 19 ha costretto a dure rinunce gli organizzatori – con temi e situazioni molto diverse tra loro. Marie Jones, irlandese di Belfast nata nel 1951, è una commediografa che ha saputo come poche raccontare la normalità o, meglio, situazioni che avvengono frequentemente tanto che ormai siamo abituati ad accettare queste anomalie. In questa commedia del 2012 proposta con successo anche oltreoceano conferma la sua preferenza per storie in cui le donne siano protagoniste, soprattutto quelle di ceto operaio o, in questo caso, assistenti sociali (forse meglio definirle badanti) al livello della sopravvivenza a causa di emolumenti molto bassi. Quarantenni, a casa li aspettano mariti senza lavoro e figli che poco fanno per aiutare il budget familiare. Sono persone forti ma che hanno momenti di scoramento in cui sognano cose impossibili (anche se occorrerebbero poche centinaia di sterline per realizzarle) alternando momenti di complice goliardia ad altri in cui il peso delle responsabilità casca loro addosso come macigni. Accudiscono Davy, un ottantaquattrenne appassionato di Frank Sinatra (ha anche una foto con dedica) e lo fanno senza onore né ignavia: per loro è un lavoro e poco sanno davvero sull’anziano loro affidato. Una mattina come tante l’uomo è in bagno, ma questa volta ritarda ad uscire, anzi, non esce proprio.
Le due immaginano che possa essere successo qualcosa, iniziano a pensare a varie ipotesi ma non trovano il coraggio di entrare lì e scoprire, probabilmente, che sia morto. Da questo momento la commedia ha il suo migliore sviluppo, con subitanei momenti di euforia (ritirare la pensione senza dire che è morto) e la paura che le attanaglia di essere scoperte. Ma c’è di più come la scoperta che l’uomo ha vinto una certa cifra ed il ritrovamento di un testamento che le rende irrimediabilmente molto più umane costringendole a scelte che mai avrebbero pensato possibili. Nelle mani di Carlo Sciaccaluga – sua la traduzione e la regia - la pièce ha acquistato grande interesse, riuscendo ad arricchire emotivamente una storia tutto sommato non molto originale. Con le stesse interpreti il testoha debuttato lo scorso autunno in forma di mise en espace a Roma al Festival Trend. Anche in quella occasione la sua regia è stata stravolta dagli eventi, costretto a variare la messa in scena perché una delle due interpreti, Alice Arcuri, aveva subito un infortunio al piede a pochi giorni dalla prima che la aveva costretta a recitare seduta. Qui, per donare sicurezza sanitaria a spettatori e interpreti, ha fatto togliere poltrone in platea creando un funzionale palcoscenico senza scenografie dove tutto è un dialogo e le varie situazioni vengono sottolineate da funzionali luci (bravissimo Davide Riccardi) e da brevi discorsi pre-registrati. Le interpreti sono ambedue genovesi nate all’ombra dello Stabile e si impegnano in una recitazione molto fisica. La Arcuri l’abbiamo già vista durante questa stagione ne Una mano mozzata a Spokane di Martin McDonagh sempre diretta da Sciaccaluga. Lì era a fidanzata del giovane: svampita, imbranata, diceva quello che non avrebbe dovuto ma, alla fine, si dimostrava più equilibrata di tutti gli altri.