08 Aprile 2013
C’è un rapporto fra i problemi strutturali e l’evoluzione tecnica del cinema quale espressione estetica e culturale?
Iniziamo chiedendoci che tipo di arte è il cinema.
1. E’ la sola che abbia bisogno di solide risorse economiche per sopravvivere. Un libro può essere scritto utilizzando pochi mezzi. E’ vero che, una volta finito, per esistere davvero quale oggetto economicamente indicativo, richiede stampa e diffusione anche se oggi esistono modi, anche abbastanza economici, per queste fasi. Tuttavia si tratta di fasi diverse rispetto al momento creativo.
Un quadro per essere realizzato ha bisogno di risorse, ma anche in questo caso sono esborsi contenuti, così come per la scultura, tranne il caso di grandi opere, e la fotografia. Un film semplicemente non esiste se non si hanno a disposizione gli ingenti capitali necessari per la sua produzione. Anche se oggi questi costi possono essere ridotti a qualche centinaio di migliaia di euro, si tratta sempre di capitali consistenti. Oggi il costo medio di produzione in Italia sfiora i quattro milioni di euro, mentre in un’industria matura come quella hollywoodiana si colloca fra i cinquanta e i settanta milioni di dollari, vale a dire fra i quaranta e i cinquanta milioni di euro.
2. Tutto questo determina una forte dipendenza dei creatori dagli apparati industriali che governano il settore.
All’origine del cinema queste esigenze economiche erano più limitate. Questo quando i film duravano fra i dieci e i quindici minuti, erano realizzati in poco tempo, con attori occasionali (per molti anni quelli di teatro consideravano vergognoso lavorare dietro la macchina da presa) per cui sia le condizioni climatiche, sia la disponibilità di scenari naturali assumevano un ruolo fondamentale. La stessa nascita di Hollywood è legata all’emigrazione di alcuni registi dalla costa orientale a quella occidentale a seguito della violenta guerra dei brevetti (1906 – 1915). Questi predecessori trovarono in California condizioni geografiche e climatiche particolarmente favorevoli – all’epoca l’illuminazione era fornita dal sole – e si stabilirono in quel piccolo borgo destinato a diventare la capitale del cinema. E’ una situazione che, in Italia, giustifica la nascita delle prime iniziative cinematografiche in situazioni geograficamente favorevoli: Torino (vicinanza degli scenari alpini), riviera ligure (sole), Campania (sole e manodopera a basso costo).Una seconda fase, attiva negli anni dieci – quindici, è quella in cui l’industria cinematografica si stabilizza, creando complessi strutturati (gli studi), sostituendo al sole l’illuminazione elettrica e usando macchinari che consentivano la realizzazione di film lunghi. In questo processo gli italiani hanno funzionato da apripista, realizzando opere come Quo vadis? (1912) e La Gerusalemme liberata, entrambi firmati nel 1912 da Enrico Guazzoni, sino ad arrivare a quello che può essere considerato il capostipite del genere lungo: Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone. Titoli che ispirano uno dei fondatori del cinema americano: David Wark Griffith.
Un passaggio successivo si ha con la nascita del sonoro, anche se è bene notare che il cinema non è mai stato veramente muto perché per anni sono stati messi in opera i sistemi più ingegnosi – pianole, dischi, attori recitanti – per dargli voce. La nascita del cinema sonoro costituisce un evento che trasforma l’intero settore. Dopo l’uscita de Il cantante di jazz (1927) di Alan Crossland l’industria cinematografica e il mercato del film non sono più gli stessi. Da notare che, a rigore, è difficile definire sonoro un prodotto come quello appena citato, in cui i dialoghi non superano un minuto su ottantotto di proiezione, le didascalie la fanno da padrone e la vera parte sonora è affidata a nove brani con canti e musiche. Tuttavia il valore di quest’opera sta nell’aver dimostrato che il cinema poteva parlare. Un dato di grande importanza tanto da essere alla base del salvataggio economico della società, la Warner Bros., sull’orlo del fallimento, che lo aveva prodotto. Altra conseguenza dell’introduzione del sonoro è un vero terremoto nel campo divistico, molti attori siano allora sulla cresta dell’onda si trovano improvvisamente espulsi dal circuito perché le loro voci non sono all’alterezza del nuovo mezzo. Su questo delicato passaggio il cinema ha riflettuto con opere di grande interesse come il recente The Artist (2011) del francese Michel Hazanavicius.
Un nuovo salto, anche se meno traumatico, arriva alla metà degli anni trenta con l’avvento del colore. Il primo lungometraggio realizzato con il nuovo metodo sarà Becky Sharp di Rubem Mamoulian, film tratto dal romanzo La fiera delle vanità (1846 - 48) dello scrittore ottocentesco inglese William Makepeace Thackeray (1811 – 1863).
Altro passaggio tecnico – linguistico con la nascita del cinema a grande schermo all’inizio degli anni cinquanta: La tunica di Henry Koster è del 1953.
Seguono altre tappe con il potenziamento del sonoro (surround sound) ed esperimenti falliti (odorama) tutte tesi a modificare la e accentuale la forza delle immagini.
Queste novità hanno imposto all’esercizio cinematografico costose modifiche, ma sempre nel solco di un percorso che vedeva i distributori inviare periodicamente alle sale i contenitori con le bobine di pellicola (le pizze). Da una decina d’anni anche questo sistema è stato modificato al punto che, racconta un collega, a un party al Festival di Berlino alcuni giovani critici gli hanno chiesto che cosa fossero quei festoni di celluloide che adornavano la sala. Evidentemente in vita loro non avevano mai visto un pezzo di pellicola. Intendiamoci, non avevano tutti i torti in quanto, soprattutto all’estero, da qualche tempo e definitivamente dalla prossima stagione, le proiezioni avverranno solo con metodi digitali.
In modo schematico possiamo individuare in due filoni i percorsi in atto. Il primo, quello più praticato, consiste nell’invio di piccole scatole in cui il film è contenuto in un disco simile a un comune DVD. Il secondo sistema, non ancora maggioritario, consente nell’invio del film in forma di file dal centro alla sala, tramite internet, cosi come avviene per un normale messaggio di posta elettronica. Questo secondo sistema, notevolmente più efficiente ed economico, presenta lo svantaggio di essere esposto alla pirateria informatica lungo il percorso dal punto d’invio al computer ricevente. E’ materiale che viaggia, nella sostanza lungo i cavi telefonici, impulsi protetti da sistemi criptati. Tuttavia l’esperienza insegna che, per quanto queste schermature siano sicure, c’è sempre il rischio che il materiale protetto sia rubato. In un mondo in cui non sono al sicuro né gli archivi delle banche, né quelli delle grandi centrali spionistiche o dei governi è ingenuo pensare che si possano metter al riparo i film. E’ la conseguenza dei nuovi scenari che caratterizzano la comunicazione, un universo in cui tutto è trasformato trasforma in formule matematiche capaci si fare quasi tutto, dalla trasmissione e ricerca d’informazioni, alla creazione di realtà inesistenti. A questo proposito ricordiamo la conversazione tenuta, un paio d’anni or sono, sul cinema virtuale. Ogni qual volta s’inventa un nuovo algoritmo blindato c’è subito qualcun altro, da qualche parte del mondo, che ne progetta un altro in grado di violarne la protezione.L’Italia è, fra i paesi europei, quello con uno dei più bassi tassi di digitalizzazione delle sale. Sono 1.815 schermi che usano questo tipo di proiezione contro i 2500 della Germania, i 3.216 della Gran Bretagna e i 4.452 della Francia. E' una cifra di poco superiore agli 1.750 della Spagna. Se, poi, preferiamo parlare di percentuali di sale digitali sul totale degli esercizi in funzione, il quadro diventa ancor più nero. A fronte dell’otto virgola tre per cento del nostro paese, c’è l'otto virgola cinque della Spagna, l’undici della Germania, il 14,9 per cento della Gran Bretagna e ben il venti per cento della Francia.
Ciò considerato resta il fatto che si sta per imporre agli esercenti italiani un massiccio programma d’investimenti, che, probabilmente, saranno solo alla portata dei grandi multiplex, mentre molti cinema mono schermo e, soprattutto, quelli a più spiccata valenza culturale (d’essai e cineclub) saranno costretti a chiudere. Non è una bella prospettiva, anche perché a essere svantaggiata, è quella parte dell’esercizio più ospitale nei confronti del cinema di qualità.
In altri tempi e in situazioni economiche migliori, sarebbe stata avanzata la richiesta di un sostegno pubblico agli esercenti in difficoltà ma oggi, nel quadro economico in cui siamo immersi, quest’ipotesi appare utopistica e del tutto irrealizzabile.
Umberto Rossi
< Prec. | Succ. > |
---|