Giorgio Diritti è un autore che ha saputo esprimersi sia attraverso cinema ai la televisione, rimanendo cineasta di nicchia capace anche di collaborare nella realizzazione di film di grandi autori quali Federico Fellini, Pupi Avati ed Ermanno Olmi. In particolare, il suo modo di raccontare ricorda molto il regista bergamasco da cui ha saputo carpire il piacere e la bravura nel raccontare storie difficili rendendole fruibili.
La sua opera prima il davvero interessante, Il vento fa il suo giro (2005), parlato in parte in occitano, è stato un film molto l’impegnativo, seguito da L'uomo che verrà (2009) con una splendida Alba Rohrwacher e da Un giorno devi andare (2013) presentato al Sundance film Festival. Più conosciuto dal pubblico dei Festival che non dalle platee normali, con la realizzazione di questo film sul grande artista italo - svizzero, Antonio Ligabue, ha avuto quali produttori Raicinema e Palomar s.p.a., fondata nel 1986 da Carlo Degli Esposti e partner della televisione statale in tantissimi progetti, tra cui la serie deI Commissario Montalbano. Affidata la commercializzazione alla 01 Distribution, tutto era perfetto per ottenere grande visibilità. Oltre 200 sale anche se il Coronavirus ha ridotto notevolmente le potenzialità del film al box office. Probabilmente sarà proposto in tempi brevi anche sul piccolo schermo, ma sicuramente perderà molto del suo fascino e anche del magnetismo di Elio Germano (vincitore alla Berlinale dell’Orso per il migliore attore protagonista) in una delle interpretazioni più belle e sofferte. Tra lui ed il regista c’è complicità, assieme riescono a fare emergere l’uomo dando più importanza alle sue problematiche che non alla sua attività di scultore e pittore. In pratica, non siamo di fronte ad una lezioncina sulla vita di un artista, ma sul suo difficile percorso di vita attraverso povertà, umiliazioni, tardivi riconoscimenti. Lo conosciamo quale uomo generoso (non rifiutava gli altri come poteva sembrare logico) scambiava un quadro per una zuppa anche quando era famoso, finalmente felice quando riuscì a comperarsi 15 moto. Ironia della sorte, per un incidente sulle due ruote perse l’utilizzo della mano con cui creava i suoi lavori. Lo sviluppo è molto attento e punta sui movimenti mai rilassati, carichi di nervosismo, sempre sgraziati, privi di coordinamento, il tutto evidenziato dal suo corpo rachitico fonte di derisione da parte di molti. Come aveva fatto con L’uomo che verrà (2009) il regista si immerge in un attento studio linguistico (lì l’antico emiliano, qui una lingua spesso incomprensibile mista tra tedesco, dialetto padano e italiano). Con la bravura di Elio Germano, tutto appare perfetto: un cinema che ti fa dimenticare la finzione. Il film segue tutta la vita del pittore da quando, dopo essere stato in Svizzera dove ha trascorso un’infanzia e un’adolescenza difficili, ha vissuto per molto tempo in una capanna nei pressi di un fiume. Era stato rimandato in Italia e da quel momento visse per anni in una capanna senza mai cedere alla solitudine, al freddo e alla fame. L'incontro con lo scultore Renato Marino Mazzacurati, che gli insegna ad usare i colori, è l'occasione per riavvicinarsi alla pittura ed è l'inizio di un riscatto in cui sente che l'arte è l'unico tramite per costruire la sua identità, la vera possibilità di farsi riconoscere e amare dal mondo.