Festival di Salonicco 2005 - Pagina 2

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Festival di Salonicco 2005
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Qualche titolo interessante ha fatto capolino dalla sterminata lista di circa 260 film in programma. Leidy Zi (La signora Z) del bulgaro Georgi Djulgerov, ad esempio, ha colpito per la precisione con cui radiografa la caduta agli inferi di una giovanissima campionessa di tiro con la pistola che passa dalle gelide stanze di un orfanotrofio – prigione ad un sordido bordello greco per finire ingaggiata, per un pugno d’euro, come assassina a pagamento. Il film, che ha vinto il Festival di Sarajevo 2005, si colloca sulla linea delle molte produzioni, ormai quasi un genere, che affrontano la condizione disperata in cui si trovano i giovani e gli umili nelle società che hanno visto il crollo del socialismo reale. Lo stile del film, così come quello d’altre opere che si muovono nella medesima direzione, deve molto sia alla lezione neorealista, sia al migliore cinema americano di denuncia sociale. Il regista è un professionista che ha firmato ben 25 titoli in trentacinque anni d’attività, passando indenne dal vecchio regime al capitalismo selvaggio che segna quasi tutti i paesi dell’ex Est – Europa. Il film, che utilizza con abilità il meglio del realismo e del film d’azione, ha una struttura solida, ma non eccede in originalità.
Manifestazioni come questa offrono, d’altro verso, un’ottima occasione per tastare il polso alla cinematografia nazionale. Va subito detto che la produzione greca di quest’anno non ha offerto prove particolarmente vivaci. Si è oscillato fra il buon livello professionale, magari aggiunto ad uno stimabile senso di responsabilità sociale, e la routine più noiosa. Il titolo che ha suscitato il maggiore interesse, è Agrypnia (La veglia) di Nikos Grammaticos. Il film, vagamente ispirato a Heat (Heat - La sfida, 1995) di Michael Mann, ruota attorno a due fratelli: un prete e un ex poliziotto, che ha ucciso la moglie ed ora tenta di espatriare clandestinamente. E’ il breve e intenso confronto fra due moralità e opposti modi di vita. L’originalità è nello sguardo del regista, che non si schiera per alcuno dei due, ma ne radiografa ragioni e torti, generosità e debolezze con occhio freddo. Lo stesso stile, cupo quanto scure sono le immagini, ci parla d’anime in cui si addensano motivazioni, ricordi, rancori spesso inconfessabili. Il quadro, tutt’altro che turistico, del porto di una grande città si salda con la qualifica d’anime perdute che è possibile attribuire ad entrambi i protagonisti.
Omiros (Ostaggi) di Costantine Giannaris ha molti punti in comune con il film precedente, ma se ne differenzia sia perché prende spunto da un fatto realmente accaduto, sia per una maggiore sensibilità in direzione sociale. Un albanese, che traffica in armi e ha subito aggressioni pesanti da parte dei compatrioti prima di arrivare - da clandestino - in Grecia, prende in ostaggio gli occupanti di un autobus di linea. Chiede un riscatto di 500 mila euro e via libera per il ritorno in patria. Ovvio che il tentativo si chiuderà tragicamente, proprio per mano della polizia albanese. La narrazione non maschera neppure troppo uno spiacevole razzismo antischipettaro con poliziotti e criminali di Tirana che non hanno tratti sostanzialmente diversi, ma ha il pregio di uno stile professionalmente maturo e una certa abilità nel descrivere il microcosmo forzatamente recluso.
Voltiamo pagina con The Zero Years (Gli anni zero) di Nikos Nikolaidis. Questo regista è uno dei pochi a seguire un preciso filo stilistico e a guardare ad un universo che rimane saldo opera dopo opera. E’ un mondo chiuso, sovrabbondante d’oggetti degradati posti accanto ad arredi sontuosi o con la pretesa di esserlo. Ciò che c’è proposto è qualche cosa a mezza strada fra un palcoscenico baroccamente arredato e il deposito di un rigattiere. In questo terreno chiuso, si agitano personaggi, di solito donne umiliate e denudate, larve addette a pratiche sessuali tutt’altro che erotiche. In questo caso sono quattro ragazze rinchiuse, da un potere totalitario e dispotico, in una sorta di bordello destinato a clienti (del potere?) dalle tendenze masochiste. Nel corso di una seduta particolarmente intensa un consumatore sfiora la morte e le donne lo nascondono in una sorta di gabbia. Ben presto il potere si fa vivo per chiedere conto della scomparsa dell’uomo e sottopone le mercenarie a stringenti interrogatori. Le quattro figure femminili, scaglionate su fasce d’età che vanno dalla giovinezza ad una dolente maturità, incarnano altrettante posizioni di schiave di fronte all’autorità, poco importa quella politica, familiare o di gruppo. Il tessuto è costruito con una voglia ossessiva di libertà e di ribellione che si sposano all’accettazione, quasi complice, della sottomissione. Il tutto dominato dall’impossibilità di sfuggire ad un ruolo preciso – la sola che riesce ad andare oltre la porta del reclusorio vi fa ritorno volontariamente – assieme alla consapevolezza che non esiste futuro e che il mondo esterno è peggiore della prigione. Il film ha tratti oscillanti fra il decadente e l’intellettualistico, abbonda nel parlato e la regia non riesce ad impugnare le forbici quanto dovrebbe. Tuttavia, nonostante questi difetti, siamo di fronte ad un testo originale e ad una proposta di cinema che, quantomeno, non si limita a copiare altre esperienze.